mercoledì 23 dicembre 2009

RECENSIONE OLTRE L'INNOCENZA (Beyond Innocence) di Emma Holly


Prima pubblicazione anno: 2001 by Jove



Pubblicato in Italia da: Mondadori, I Romanzi Passione no.20, febbraio 2009


Libri collegati: Oltre la seduzione


Livello di sensualità: burning (estremo)


Ambientazione: tardo vittoriana


Voto: 8,5/10


Florence Fairleigh è giovane e bella, ma orfana, ingenua e senza il becco di un quattrino. Ma Florence è anche piena di buon senso e decisamente una brava ragazza. Benché sia solo la figlia di un parroco di campagna, o forse proprio per questo, sa ciò che deve fare, non avendo alternative economicamente e moralmente accettabili: trovare al più presto un marito gentile e sufficientemente accettabile, che la mantenga e le dia sicurezza per il resto dei suoi giorni. Nessuna illusione romantica, solo sopravvivenza. Se anche la tentazione di vedere cosa c’è al di là dei suoi limitati orizzonti, o di provare a vivere qualche emozione, si affaccia alla sua mente, la giovane è bravissima a reprimerla.
Edward Burbrooke, conte di Greystowe è ricco, potente, austero e severo, abituato a farsi carico della famiglia da quando aveva appena diciasette anni e a farsi obbedire senza discussioni. L’insoddisfazione lo rode, ma lui preferisce ignorarla ed andare avanti a forza di un’autoimposta disciplina. Come capo della propria casata sa quali sono le sue responsabilità: trovare al più presto una moglie compiacente per il fratello minore Freddie, col doppio scopo di fargli mettere la testa a posto e fornirgli un erede, ma soprattutto di salvarlo da uno scandalo che rovinerebbe per sempre la sua vita e macchierebbe l’onore della famiglia. Se anche la tentazione di vedere cosa c’è al di là dei suoi ripetitivi orizzonti, o di provare a vivere qualche emozione, si affaccia alla sua mente, l’uomo è bravissimo a reprimerla.
Finchè non vede Florence, la vittima sacrificale, trovata e scelta dal suo notaio. All’improvviso la tentazione si incarna nel suo corpo pallido e burroso, nei suoi sorrisi timidi, nel rossore delicato che le pervade la pelle quando si imbarazza, nel suo sguardo diritto e limpido. Tentazione che deve essere cancellata ed eliminata, poiché suo fratello viene prima di tutto, anche dei propri desideri.
Eppure… il desiderio non scompare, anzi si acuisce con la conoscenza di Florence e diviene insopportabile ed insopprimibile con la forzata vicinanza, dopo l’annuncio del fidanzamento di Freddie e Florence. Per Edward è una tortura talmente grande che le fiamme dell’inferno gli sembrano fredde. La sogna, la brama, cerca di sedurla, si ritrae, ci riprova, fugge di nuovo. Sa cosa è giusto ma non riesce a farlo, perlomeno non completamente. Ci sarà una lunga strada da percorrere, decisioni da prendere e molte rinunce da fare per tutti i protagonisti, prima che ognuno compia il proprio destino.


Oltre l’Innocenza è il primo romance storico da Emma Holly e rappresenta una scommessa vinta: rispettare l’impianto classico del romance introducendo una maggior dose di erotismo, sfumando il confine con “l’erotica” appunto, dove invece la componente sessuale del racconto è prevalente sulla trama. La Holly ci porta dentro una storia apparente non nuova, immettendo sottilmente e gradatamente innovazioni, in modo che non ce ne accorgiamo se non alla fine. Florence, Edward e Freddie sono al contempo stereotipi e personaggi veri, antichi esteriormente e contemporanei interiormente, i loro tormenti sono anche i nostri, la difficoltà a capire e capirsi la conosciamo, la loro lotta per crescere è la nostra. L’autrice nonostante mantenga sempre evidente una robusta vena ironica ed autoironica, non sfugge ai momenti drammatici, trattati sempre con estremo pudore e sobrietà; sono molte le occasioni in cui potrebbe spingere sull’acceleratore per meglio manipolare le emozioni del lettore, ma preferisce non farlo e di questo le va riconosciuto grande merito ed onestà intellettuale. Così come non teme di chiamare la passione, la grande protagonista di questo racconto, col proprio nome, mascherandola con qualche facile e scontata espressione sentimentale. L’amore splendido di Edward e Florence, nasce prima di tutto da una fortissima attrazione fisica, si consolida e si trasforma proprio in virtù di questa grande condivisione sensuale.
D’altronde perché un viso, od un corpo, ci parlano mentre altri non lo fanno? Perché proprio quello ci suscita una miriade di sensazioni ed emozioni e cento altri ci lasciano indifferenti? Anche Edward se lo domanda e comprende che il corpo di Florence semplicemente gli parla della sua anima e che è questa ad attrarlo così potentemente, così come Florence capisce che il proprio corpo reagisce istintivamente a quello di Edward, perché inconsciamente sa che i suoi modi burberi e scostanti, non sono altro che una difesa per non soccombere alle proprie paure e debolezze. Imparare a fidarsi ed abbandonarsi totalmente all’altro, sarà la chiave di volta delle loro esistenze e darà ad entrambi il coraggio di lottare per la felicità. Anche Freddie affronterà i propri fantasmi e diventerà pienamente adulto, come Edward e Florence diverranno pienamente uomo e donna. Tutti troveranno ciò che prima mancava loro, soccombendo alla tentazione: di essere diversi, di essere sé stessi fino in fondo.


Chi lo ha letto l’ha amato di certo, a chi non l’ha ancora fatto lo consiglio caldamente, il romanzo vi conquisterà e vi esalterà. Con uno stile asciutto, ma estremamente efficace, la Holly ci cattura in una lettura da cui non si riesce a staccarsi e le cui scene d’amore, lunghe, esplicite e dettagliate, senza mai essere volgari o pesanti, rimangono impresse, molto impresse.

domenica 22 novembre 2009

RECENSIONE NEW MOON (2009)






Regia di Chris Weitz con Kristen Stewart (Bella Swan) Robert Pattinson (Edward Cullen) Taylor Lautner (Jacob Black) Billy Burke (Charlie Swan) Ashley Green (Alice Cullen) Michael Sheen (Aro) Dakota Fanning (Jane) Peter Facinelli (Carlisle Cullen).

Bella Swan compie diciotto anni ma quello che per ogni giovane è un traguardo importante, per lei diventa un passo fondamentale verso il raggiungimento dello scopo della sua vita: diventare la compagna del suo amato Edward, per sempre. Ma Edward che pure la ama appassionatamente non vuole privarla della mortalità, come non desidera che ella perda l’anima, divenendo una dannata come lui. Per questo la lascia brutalmente, convincendola che non la vuole più ed invitandola a proseguire come se non l’avesse mai conosciuto. Bella disperata ed incredula, ma sotto sotto convinta di meritarsi l’abbandono perché non è abbastanza per uno come Edward, viene travolta dalla depressione e comincia a compiere diversi gesti autolesionistici. Ad aiutarla a riprendersi ed uscire da quel tunnel buio c’è il vecchio amico Jacob Black; oramai anche lui è cresciuto, ha sedici anni e vede Bella come ben più che un’amica. Lei si appoggia a lui per conforto ed aiuto, lui spera che la sua gratitudine si trasformi in qualcosa di maggiormente profondo. Però il fantasma di Edward è tra loro, costante. Inoltre Bella scopre che Jacob è divenuto un licantropo, ovvero il peggior nemico dei vampiri e sa che sarà presto costretta ad effettuare una scelta tra le due razze che assolutamente non vuole compiere dato che preferirebbe mantenere le sue amicizie ed i pur precari equilibri esistenti inalterati. Non sarà possibile, sia perché la vampira Victoria le dà la caccia per vendicarsi della morte del suo compagno causata dai Cullen, sia perché Bella volerà in Italia per impedire ad Edward, che la crede morta a causa di un equivoco, di suscitare la collera degli antichissimi vampiri Volturi per essere da questi giustiziato.

Inizia proprio con una bellissima ripresa della luna,
New Moon appunto, che sembra promettere bene per questa seconda puntata cinematografica della saga di Twilight, ma dopo nemmeno quindici minuti, cioè quando Edward lascia Bella già iniziano i primi seri dubbi, che si consolidano dopo la prima ora per divenire certezza nel momento in cui quella che doveva essere la parte clou del film, ovvero l’incontro-scontro coi Volturi quando Edward persegue il suicidio per via indiretta, viene sprecata in pochi minuti. Sembrava che il pur bravo Chris Weitz, già regista rivelazione dell’ottimo About a boy, volesse imprimere la sua impronta alla pellicola con un impianto più classico, evidente nelle scenografie, nei costumi ed anche nelle inquadrature, più campi lunghi e medi, pochi movimenti di macchina, meno “alternativi” ed eclettici di quelli della Hardwicke che stava letteralmente incollata al viso ed al corpo dei suoi attori, come anche nella scelta dei colori quasi naturali, in confronto a quelli desaturati e molto efficaci di Twilight. Peccato che oltre questo non sia andato, abbandonando completamente a sé stessi sceneggiatura ed attori e confidando solo negli effetti speciali che, notevolmente migliorati grazie al grosso budget, sono di fatto la pagina migliore del film. Se in Twilight Kristen Stewart era brava ed in parte, qui sembra solo dover timbrare il cartellino e sopperisce alla mancanza di direzione del regista e di convinzione da parte sua con una serie infinita ed insopportabile di smorfie, come nemmeno Meg Ryan e Keira Knitley insieme avrebbero potuto fare. Imbarazzante il pompaggio con gli anabolizzanti del diciottenne Taylor Lautner, che interpreta volenterosamente Jacob, come se i muscoli gonfi dei suoi pettorali continuamente ed inutilmente esibiti potessero da soli sostituirsi ad una trama debole e ad una totale mancanza di intensità. Infatti nonostante i continui e rimarcati riferimenti e parallelismi con Romeo e Giulietta, qui della complessità del Bardo non vi è nulla, anzi, pare tutti ricerchino la semplificazione e la dissoluzione di un significato che superi la mera immagine patinata. Nelle urla di Bella non c’è il dolore evocato, nel suo viso nessuna traccia di quella sofferenza che la depressione dovrebbe portare con sé, l’amore tanto sbandierato per due ore non compare se non fugacemente. Scomparsi tutti i simbolismi e le possibili metafore legati al sangue, al vampirismo, ai licantropi come anche ogni componente anche vagamente sensuale. Davanti agli occhi scorrono scene levigate come in un videoclip pieno di modelli, dove ci sono tante comparse e nessun personaggio, se non nella affascinante ma troppo corta sequenza dei Volturi, dove veramente il film potrebbe decollare e tristemente non lo fa. Il britannico Michael Sheen, attore di razza come Aro e la giovane ma già veterana Dakota Fanning nei panni di Jane sono efficaci ed illuminano con forza, seppur brevemente, un film invece opaco, in una sequenza potente che avrebbe dovuto rappresentare il cuore della storia: la disponibilità al sacrifico assoluto per la salvezza dell’amato. Due capriole, quattro battute e il tutto finisce, quasi che ci fosse la fretta di concludere.
Twilight era ben lontano dalla perfezione, ma nonostante gli scarsi mezzi portava con sé un carica romantica e sottilmente sensuale che lo riscattava dalle sue molte pecche ed era evidente che la regista credeva profondamente in ciò che stava facendo, trasmettendolo a noi ed alla sua troupe un poco della magia che animava il libro. In New Moon evidentemente il regista non credeva e si è limitato a portar a casa il lauto stipendio, lasciandoci pesantemente delusi. Unico faro nella notte, l’Edward di Robert Pattinson, che dotato di carisma e grande presenza scenica, brilla di luce propria e fa brillare di riflesso coloro che gli stanno vicini, tolto lui l’ombra invade lo schermo e Bella non è davvero che una figurina scialba. Speriamo che Eclipse si riscatti e ci riscatti.


giovedì 19 novembre 2009

L’EROE TORMENTATO OVVERO IL PROTAGONISTA PERFETTO




Agli inizi dell’Ottocento, le sorelle Charlotte ed Emily Bronte, pubblicarono due romanzi destinati a segnare la storia della Letteratura per vari motivi: Jane Eyre e Cime tempestose. Oltre a tutti i meriti oggettivi, i due libri sono divenuti famosi per qualcosa che li accumuna, ovvero il protagonista maschile: tanto Rochester che Heathcliff sono infatti due eroi tormentati, ben lontani dall’ideale maschile promosso fino ad allora e destinati a fungere da modello per migliaia di eroi da allora. Un successo assoluto e travolgente che dura ancora ai giorni nostri, basti pensare per esempio a tanti titoli della Putney, della Keypas, della Kinsale, alle saghe della Kenyon e della Ward, dominate dagli eroi tormentati, allo splendido Edward Cullen della Meyer o al magnifico Jean Claude della Hamilton, figure che popolano tenacemente i sogni e le fantasie di milioni di donne anche di culture, età ed estrazione sociale molto diverse.
Se Orgoglio e Pregiudizio col suo Mr Darcy è stato in qualche modo il capostipite di un genere e di un eroe, lo stesso si può dire delle Bronte e dei loro protagonisti che benché quasi contemporanei, non potrebbero essere più diversi. Heathcliff e Rochester sono umorali, scostanti, molto mascolini, arroganti, ma anche estremamente fieri, leali ed in lotta con l’ordine costituito e come tutti gli eroi torturati sembrano apparentemente delle figure negative quando in realtà sono profondamente positive. Difatti il nucleo di questo eroe è la sua disponibilità al sacrificio, che l’eroina percepisce inconsciamente e che la attrae inesorabilmente verso di lui. Come in un gioco di specchi la protagonista femminile sente un pericolo in quest’uomo, in qualche misura lo teme perché le offre poche certezze e molti dubbi, eppure allo stesso tempo la sofferenza che intuisce radicata in lui ed i demoni che intravvede la spingono ad aiutarlo, a salvarlo, ad amarlo. Così come non solo lui vuole essere salvato, benché non possa confessarlo nemmeno a sé stesso, ma è pronto a tutto per questa donna che gli si offre anima e cuore. Alla medesima maniera lui rappresenta quel senso dell’avventura, quell’arditezza e quella passionalità che l’eroina, come noi lettrici in fondo, tiene nascosta dentro di sé e teme di far uscire allo scoperto per non incorrere nel biasimo della società. Infatti la lotta della protagonista in questi romanzi è doppia, contro le difficoltà esterne ed il mondo che vuol tenerla separata dal suo amore da una parte, e contro quelle interiori dell’eroe che prima di cedere al sentimento, lotterà strenuamente per rimanere attaccato alla sua parte oscura. Ma quando l’amore trionferà, sarà perciò un doppio trionfo per l’eroina e tanto più importante in quanto è stato così sofferto.
Non credo esista un’altra tipologia di eroe così potente nel romance e più in generale in letteratura, un uomo che soffre è incredibilmente attraente per la protagonista e per la lettrice, sia perché tutti abbiamo esperienze negative alle spalle, nonché una nascosta parte buia, e questo ci permette di identificarci ed essere vicine a questa figura, ma anche perché la conquista del lieto fine rappresenta, ad un certo livello, il messaggio che il suo successo possa essere anche il nostro. Senza contare che chi ha la capacità di provare così tanto dolore, possiede anche la stessa capacità di provare un profondo piacere ed un amore intensissimo, il che è assolutamente seducente. La maturità, la complessità e la generosità di questo eroe, che ci fanno perdonare i suoi molti difetti, sono veramente sexy e l’essenza stessa del romance a mio avviso, è per lui che ci batte il cuore, è per lui che smaniamo è lui quello che vorremmo essere se fossimo maschi, ci beviamo le sue lacrime ed il suo dolore come suggessimo del nettare, è da lui che vorremmo essere sottomesse ed a cui vorremmo abbandonarci in una lieta e femminea resa, umano vampiro o licantropo che sia. Lui quello che ci fa sentire completamente donne e che tocca la nostra anima. Al suo confronto, gli altri semplicemente scompaiono.


martedì 17 novembre 2009

RECENSIONE LA MUSICA DELLA NOTTE (The music of the night) di Lydia Joyce


Prima edizione: 2005 by Signet Eclipse

Edito in Italia da: Mondadori, I Romanzi no.885, Novembre 2009

Ambientazione: Italia, 1874 circa

Livello di sensualità: hot (bollente)

Voto: 8/10

Collegamenti ad altri romanzi: secondo volume della serie Night (perchè è la notte a fare da filo conduttore di tutti i racconti) così composta:
1. IL VELO DELLA NOTTE (The Veil of Night) – protagonisti Byron Stratford, Duca di Raeburn, e Victoria Wakefield – potete trovare le nostre note sul romanzo qui
2. LA MUSICA DELLA NOTTE (The Music of the Night) – protagonisti Sebastian Grimsthorpe, Lord Wortham, e Sarah Connolly
3. Whispers of the Night – protagonisti Dumitru Constantinescu, conte di Severinor, e Alcyone Carter
4. Voices of the Night – protagonisti Charles Crossham, Lord Edgington, e Maggie di King Street
5. Shadows of the Night – protagonisti Colin Radcliffe e Fern Ashcroft.



Sebastian Grimsthorpe aspetta nell'ombra di una bottega che la sua preda si avvicini. Non si trova a Venezia per caso, né ha abbandonato la natia Inghilterra assumendo l'identità del ricco argentino senor Guerra per un capriccio, ma al fine di ottenere giustizia per la sua giovanissima figlia illegittima. La legge in patria, viziata da interessi e pregiudizi, gli è stata avversa, lasciando a piede libero colui che un tempo gli era amico ed ora è il suo peggior nemico: Bertrand de Lint, annoiato, ricco, viziato e vizioso libertino, che per appagare le sue basse voglie ha violato una ragazza innocente. Mentre lo osserva avvicinarsi all'attracco con l'imbarcazione, la rabbia per il torto subito si mescola all'incredulità per la faccia tosta di de Lint che ha proclamato al mondo di essere stato in realtà sedotto dalla piccola Adela, gettando quindi discredito sulla povera vittima e su Sebastian stesso, pessimo padre, all'aspettativa per l'inizio del complicato piano che ha concepito. Questa volta, Bertrand non potrà fuggire e dovrà pagare per le sue colpe. Ma non appena de Lint sbarca, non è da lui che lo sguardo Grimstorpe è attratto, né dalle sue nipoti e cugine che l'accompagnano in questo viaggio nella Serenissima, ma da una donna piccola, esile e chiaramente di condizione poco elevata. Un paio di occhi meravigliosi incrocia i suoi e per un attimo il tempo sembra fermarsi, non c’è più un “prima” od un “dopo” ma solo un “ora”, non più angosce e preoccupazioni ma solo il piacere del momento. Poi l’incantesimo si rompe e Sebastian si rende conto delle evidenti benché non troppo marcate cicatrici da vaiolo che marchiano il suo viso e del fatto che ella sia legata in qualche modo a de Lint, visto che lui la sta aiutando a scendere a terra. Un’amante probabilmente, si dice Sebastian ed immediatamente, anche spinto da un improvviso quanto intenso desiderio, modifica i suoi piani per includerla ed umiliare ulteriormente Bertrand.
Sarah Connolly fissa lo sconosciuto seminascosto nel palazzo di fronte al pontile ed il cuore accelera i battiti, il calore le invade corpo e cuore, facendola sentire per un istante lungo un’eternità, bella, desiderabile e piena di vita, non la povera sfigurata, sola e negletta che è. Pur ringraziando il cielo di aver insperatamente trovato quell’impiego come dama di compagnia di Lady Merrill, la presenza di suo figlio le ricorda che è solo un’inferiore pronta per essere preda, senza potersi difendere, degli istinti del suo padrone, non è che una donna ed una serva, il suo destino segnato, le aspettative per il futuro poche. Eppure le è bastato sentirsi osservata da quello sconosciuto per immaginare e sognare una vita diversa, per sperare in un miracolo, per illudersi che anche a lei, almeno una volta, la fortuna potrebbe arridere. Nonostante sappia che è una follia, farà di tutto per aggrapparsi a questa fioca luce nel buio dei suoi giorni, correrà rischi assurdi per conoscere anche piccole briciole di gioia, per sentire la vita riempirla anche se per poco tempo. Costi quello che costi, è pronta a pagarne il prezzo, che sarà invero alto, come lo sarà anche per Sebastian, così alto che le loro esistenze non saranno più le stesse.

Avrei voluto recensire un altro libro oggi, ma dopo aver letto questo mi è stato impossibile. Avevo letto e molto apprezzato il precedente
Il velo della notte, ma questo secondo romanzo di Lydia Joyce è stata una piacevole d inaspettata sorpresa. Scritto con perizia ed eleganza, rivela uno stile più maturo ed una maggiore sicurezza dell’autrice nei suoi mezzi espressivi, tanto da potersi dedicare in scioltezza alla storia ed personaggi, mentre ne Il velo della notte, si avvertiva una maggiore concentrazione sull’estetica della scrittura.
La trama, per quanto non originalissima, è talmente intensa da catturare immediatamente l’attenzione del lettore e mantenere alto il ritmo fino alle ultime pagine, a cui si giunge senza quasi rendersi conto di averle letteralmente divorate. Perché sin dal primo capitolo anche noi, come Sarah, siamo preda di una magia e ci troviamo completamente immerse nella vicenda. Sarah e Sebastian sono due figure contraddittorie, tormentate e sofferenti anche se per motivi molto differenti, che si incontrano quando non dovrebbero e come due ladri nella notte, provano a rubare uno scampolo di felicità. La Joyce è bravissima nel farci entrare dentro l’animo alquanto buio dei suoi personaggi, nel farci provare i loro patemi, nel permetterci si scorgere i lampi di possibile salvezza che appaiono loro davanti e che per essere abbracciati richiedono però sacrificio e fatica. Assisteremo alla crescita di Sarah e Sebastian con trepidazione e partecipazione, ci commuoveremo per le loro traversie e festeggeremo con loro il lieto fine, soddisfatti per una lettura densa e non scontata, quando sarebbe stato molto più semplice essere superficiali e poco profondi, oppure virare al melodrammatico come sovente fanno diverse scrittrici, sollecitando e sfruttando una risposta emotiva coatta. Ma Lydia Joyce si accosta alla sua coppia di eroi con rispetto, naturalezza e genuino interesse, ci svela la loro natura con delicatezza ma senza nascondere nulla, rendendoli quindi veri ed appassionanti.
Sarah, fragile ed insicura, imparerà ad avere coscienza di sé stessa, ad amarsi ed accettarsi, divenendo da bruco splendida farfalla, Sebastian farà pace con la sua sete inesausta di accettazione, approvazione ed affetto ed imparerà dai suoi errori, trovando la forza di provare ad essere un uomo ed un padre migliore. Il tutto in una storia dove, come nella realtà, non ci sono gli assoluti, ma l’infinità varietà delle mezze tinte e prima di arrivare al mare limpido, bisognerà sguazzare nell’acqua melmosa della laguna di Venezia. Unica nota dolente, a mio avviso, l’essere ricorsa da parte dell’autrice ad alcuni clichees nella figura di Sarah, oltre al fatto che difficilmente una ragazza dalle origini così umili e dalla vita passata nei bassifondi, per quanto abbia poi trascorso alcuni anni a sgrezzarsi, sarebbe stata in grado si raggiungere quel grado di istruzione e quei modi raffinati, tanto da poter passare per una aristocratica. Peccato perdonabile, visti i numerosi altri meriti del romanzo.
Emozionante e convincente, nonché estremamente sensuale, consigliatissimo.


mercoledì 4 novembre 2009

VERGINI O VERE DONNE




Se il Libertino è diventato purtroppo il protagonista incontrastato del romance storico, il suo contraltare è la figura della Vergine. Ovviamente la verosimiglianza storica è a favore delle eroine vergini, poiché nel passato soprattutto nelle classi alte, l’illibatezza era un requisito fondamentale per una donna, la cui perdita veniva appunto chiamata “disonore” e se scoperta portava all’ostracismo della buona società ed alla quasi impossibilità di sposarsi. Questo perché la donna, essere inferiore, era semplicemente un bene ed una merce di scambio, il cui unico valore era quello di essere per l’appunto veramente o presuntamente intatta ed una volta deflorata diveniva rispettivamente avariata, se nubile, e comune se sposata.
Le donne nel passato, con l’eccezione di pochi periodi storici e delle classi più basse, la cui condizione di povertà portava ad una promiscuità coatta, venivano cresciute nella più completa ignoranza della propria anatomia così come di quella maschile, né avevano la più pallida idea di cosa fosse la sessualità, se non mera riproduzione dei cui meccanismi non venivano mai comunque adeguatamente informate. Normalmente i rapporti intimi dei coniugi avvenivano vestiti ed al buio, nel giro di un paio di minuti si esaurivano e difficilmente si svolgevano in una posizione diversa da quella del missionario. Anche dopo quaranta anni di matrimonio, era alquanto improbabile che una moglie conoscesse il corpo o il sesso del marito e viceversa.



Lo scenario del romance capovolge totalmente la realtà e ci propone quello che è il modello che qui ci interessa, questa specie di strano ibrido che è la Vergine letteraria. Proprio questo mese abbiamo due perfetti esempi, a vario titolo, di questa curiosa trasformazione che ha colonizzato così tanti libri da poterli citare per giorni, ovvero le protagoniste di Oceano di passione di Johanna Lindsey e La Spia dello scandalo di Celeste Bradley. Speculari nei loro comportamenti, Gerorgina e Willa sono entrambe giovani, linguacciute, piuttosto immature e superficiali, all’inizio del libro assolutamente inconsapevoli del loro corpo ed inesperte. Salvo trasformarsi in un baleno, non appena conoscono l’eroe, in maliziose ed esperte seduttrici, che non solo non temono il membro maschile, che in teoria dovrebbe essere a loro totalmente sconosciuto, specialmente quando eccitato, ma non hanno remore di nessun tipo, già dalla prima volta hanno orgasmi multipli e folgoranti, la seconda volta conoscono il kamasutra a memoria ed alla terza fanno dichiarare al protagonista libertino (che quindi ha giaciuto con almeno un centinaio di donne per tenerci bassi) che mai hanno provato un piacere simile o conosciuto amante migliore.



Più che da sorridere verrebbe da ridere, per la falsità di questa ricostruzione e per l’evidente ingenuità che questo ritratto femminile sottintende, ovvero quello dell’aderenza ai valori tradizionali e patriarcali, da cui si cerca una modesta quanto illusoria rivincita attraverso la conquista del Libertino. Come già scritto in precedenza, così si sancisce l’assoluta impotenza di queste figure e soprattutto delle donne che vi si identificano. Eppure questa figura risulta tuttora molto amata delle lettrici, lettrici che all’eroe libertino perdonano praticamente ogni perversione ed ogni accoppiamento squallido e mercenario, ma che pretendono dalla protagonista la castità assoluta. Come mai, nel 2009, senza cadere negli eccessi, non si riesce ad accettare una donna che scopra gradualmente e col tempo il proprio corpo e quello del partner, che impari, magari non in cinque minuti, ad apprezzare l’intimità con un uomo, e che arrivi con un passato anch’ella, sentimentale e sessuale all’incontro col protagonista? Perché non può essere lei che insegna ad un partner con meno esperienza, o che quand’anche egli l’abbia, lo dirozza in campo erotico? O ancora, che male c’è in una donna, che esattamente come un uomo, cerca la propria soddisfazione e tiene alla propria indipendenza? Cosa c’è di così spaventoso in una donna che possiede sicurezza e integrità, ma allo stesso tempo oltre all’amore pretende anche il piacere? Siamo sicure che certe sciocche e finte vergini ci rappresentino?

venerdì 16 ottobre 2009

RECENSIONE NODO DI SANGUE (Guilty Pleasures) di Laurell K. Hamilton


Prima edizione: 1994 by Ace

Edito in Italia da : in hardcover: Casa Editrice Nord, 2003; in economica: Teadue 2005, pp 339

Traduzione di: Alessandro Zabini

Ambientazione: contemporanea, USA

Genere: urban fantasy

Livello di sensualità : warm (caldo)

Voto/rating: 8,5/10

Collegamenti ad altri romanzi: benché questa sia una serie, Vampire Hunter, i libri possono essere letti anche indipendentemente:

1) Guilty Pleasures (Nodo di Sangue 2003)

2) The Laughing Corpse (Resti Mortali 2006)

3) Circus of the Damned (Il Circo dei Dannati 2004)

4) The Lunatic Cafe (Luna Nera 2004)

5) Bloody Bones (Polvere alla Polvere 2005)

6) The Killing Dance (Il Ballo della Morte 2005)

7) Burnt Offerings (Dono di Cenere 2007)

8) Blue Moon (Blue Moon 2008)

9) Obsidian Butterfly (Butterfly 2009)

10) Narcissus in Chains (inedito in Italia)

11) Cerulean Sins (inedito in Italia)

12) Incubus Dreams (inedito in Italia)

13) Danse Macabre (inedito in Italia)

14) The Harlequin (inedito in Italia)

15) Blood Noir (inedito in Italia)

16) Skin Trade (inedito in Italia)


St.Louis, Missouri, pieno midwest, quella che viene chiamata la buona provincia americana, quella sana. Niente di più falso. St.Louis è una città violenta, assetata di sangue e piaceri proibiti, senza freni e con poche regole che non siano quelle della soddisfazione degli istinti e dei desideri più bassi. La morale non è che un abito da cocktail da smettere quando si fa sera, gli scrupoli un inutile retaggio arcano che va nascosto, meglio se eliminato. La morte è dovunque, il tanfo della putrefazione è un odore costante come quello dei gas di scarico delle fabbriche. Il caos, la sopraffazione e lo sfruttamento regnano incontrastati tra l’indifferenza dei più e la connivenza di molti. Sia quelli prodotti dagli umani, che dalle altre creature che popolano questa sordida città: vampiri, oramai usciti allo scoperto con tanto di chiesa della Vita Eterna, lupi e ratti mannari, ritornati, zombie. In un mondo che non crede più in niente se non al guadagno ed al godimento effimero, Anita Blake va dritta per la sua strada, senza guardare in faccia nessuno. Risvegliante di cadaveri per professione, cacciatrice di vampiri per necessità, tanto da essere soprannominata la Sterminatrice, non cede a compromessi e non fa sconti. Ma quando un misterioso, imprendibile e molto forte assassino comincia a fare strage dei vampiri più potenti in città, Anita sarà costretta suo malgrado, attraverso un doppio ricatto mortale, ad aiutare proprio gli odiati vampiri nella ricerca ed eliminazione di questo killer, senza la certezza peraltro di poterne uscire viva. A portarla dritta in trappola lo splendido Jean Claude, vampiro centenario, nonché proprietario del Guilty Pleasure, un club dove gli umani ed i non morti possono abbandonarsi alle proprie perversioni. Ma forse anche lui è vittima di forze più grandi ed occulte…

Nel lontano 1994 Laurell K. Hamilton esordiva con questo memorabile romanzo destinato a divenire il primo di una fortunatissima serie, memorabile per come riusciva abilmente ed in maniera originale a mescolare elementi horror, gotici e splatter in un insieme efficace e coinvolgente e soprattutto per aver creato una indimenticabile e copiatissima eroina: Anita Blake. Se l’avete già conosciuta la amate di sicuro, se ancora non l’avete fatto, l’amerete. Forte e fragile, coraggiosa ed impavida, cinica e sensibile, indifferente e sentimentale, comune eppure eccezionale, una donna piena di contraddizioni, piena di sfaccettature, che attraverso le sue presunte certezze granitiche sta invece cercando sé stessa, che vuol credere che nella vita ci sia un senso e che noi siamo gli artefici del nostro destino. Anche quando compie azioni che nel profondo la fanno ribrezzo, anche quando uccide con mano ferma fingendo di non provare alcun rimorso, anche quando il suo cuore ed il suo corpo la tradiscono desiderando un immondo vampiro.



Non importa che vi piaccia il genere, la Hamilton per quanto non virtuosa nella scrittura come la sua dichiarata maestra Anne Rice, vi terrà avvinti alla pagina fino alla fine del racconto senza cedimenti e tempi morti, in una specie di apnea che non si scioglierà nemmeno a romanzo concluso, lasciandovi anzi un vago desiderio di averne di più. Nonostante la Hamilton proceda per accumulazioni progressive, sovrapponendo appunto vari generi fino all’eccesso (thriller, gotico, fantasy etc.), il risultato è un nuovo universo credibilissimo ed in qualche modo ipnotizzante, perché nonostante gli elementi soprannaturali non si dubita per un istante dei sentimenti e della credibilità di tutti i personaggi. Vi è una malinconia di fondo, un’insoddisfazione, un senso di impotenza che pervadono tutta la storia e che sono molto efficaci ed intensii nella loro evidente sincerità e che fanno accettare quindi anche quello che freddamente si giudicherebbe inaccettabile.



Questa è la forza di Anita Blake e della sua autrice, due figure in cui non è difficile paradossalmente identificarsi, anche se noi non andiamo in giro con una Browning. Però, in qualche modo, i trionfi di Anita, piccola e rotondetta, ben lontana dalla perfezione, sono anche il riscatto delle donne normali che possono immaginarsi eroine senza bisogno di un eroe che le salvi o le difenda, donne che affrontano una vita dura ogni giorno ed in qualche modo riescono sempre a farcela, perché è il loro cuore ad essere speciale.
Certo non è da trascurare il fatto che la scrittrice abbia qui anche creato (e di ciò la ringraziamo infinitamente) quello che è diventato un simbolo di seduzione maschile per eccellenza, il torbido, sensuale, affascinante vampiro Jean- Claude, che rivaleggia con Lestat ed Edward Cullen nell’immaginario femminile, senza avere la presenza angelicata di quest’ultimo, ma essendo molto più carnale. Un vampiro per adulti, come questa è una storia adulta per adulti, piena di chiaroscuri e di cui non vi libererete tanto facilmente una volta chiuso il volume. Non lasciatevela sfuggire.


mercoledì 14 ottobre 2009

LIBERTINI E VERI UOMINI



"In vain have I struggled. It will not do. My feelings will not be repressed. You must allow me to tell you how ardently I admire and love you"

“Invano ho lottato. Ma non è servito. I miei sentimenti non saranno repressi. Dovete permettermi di dirvi quanto ardentemente io vi ammiri e vi ami.”



Per chi non l’avesse riconosciuta, questa è parte della dichiarazione di Mr Darcy ad Elizabeth Bennet in Orgoglio e Pregiudizio, capolavoro della letteratura e modello per tutti i romances. Ma anche paradigma di come una società ed una cultura intendevano la femminilità e la mascolinità. Darcy è certamente un eroe alpha, molto orgoglioso, testardo e volitivo, il cui tratto principale, oltre all’affidabilità, è la capacità di controllo delle sue passioni e dei suoi istinti, requisito indispensabile per essere considerato all’epoca un vero uomo. All’opposto di questo vero uomo c’era il libertino, o meglio il debosciato, poiché questo termine aveva perso col tempo il suo originario significato filosofico, andando ad indicare semplicemente uomini sregolati e viziosi, senza alcuna tempra morale, che suscitavano il biasimo generale. Per uno strano fenomeno di trasmutazione, quest’esemplare è diventato popolarissimo nel ventunesimo secolo ed è protagonista incontrastato di uno sterminato numero di romanzi d’amore.

Con poche eccezioni, sono una moltitudine le donne che sospirano per tipi come Derek Craven (Sognando te), ladro, imbroglione e prostituto, o come Sebastian Ballister (Il lord della seduzione), il “più grande puttaniere di tutta la Cristianità” e come farebbe Jane Austen se fosse viva, anch’io mi domandavo le ragioni di tutto ciò.

I libertini infatti hanno in genere superato ampiamente i trenta anni, non hanno quasi mai avuto una relazione di una qualche importanza e non si sono mai innamorati prima di incontrare l’eroina di turno. Il che ci porta ad alcune considerazioni:
1) uomini che a trent’anni non hanno mai avuto un rapporto duraturo e significativo hanno chiaramente qualcosa che non va, e certamente sono degli immaturi con gravi problemi affettivi, nella vita reale ci terremmo ben lontane da loro

2) uomini così immaturi ed inaffidabili è escluso che mostrino tempra morale e vero carattere

3) uomini abituati all’infedeltà ed a continue e ripetitive avventure, è altamente improbabile che cambino improvvisamente e si trasformino in compagni fedeli, per cui un eventuale matrimonio con uno di loro inizierebbe con le peggiori premesse e quasi certamente farebbe sopportare una montagna di tradimenti

4) uomini adusi alla frequentazione di cortigiane e soprattutto prostitute non saprebbero come soddisfare una donna, poiché lo scopo della prostituzione è proprio questo: pagare per sfogarsi ed appagarsi, non per appagare la propria compagna che non esiste se non in funzione di puro oggetto sessuale, senza volto e senza identità, perfettamente sovrapponibili le une alle altre

5) parimenti alle esigenze fisiche e sessuali delle donne, questi uomini, non avrebbero idea e fondamentalmente alcun desiderio di appagare anche i bisogni sentimentali delle donne, confinate a sole due parti: mogli e madri da una parte, sgualdrine dall’altra

6) la maggior parte di questi libertini a trent’anni, proprio in virtù della loro abitudini, erano affetti dalla sifilide a vari livelli, con cui contagiavano le mogli, ignare vittime, e la loro progenie quando decidevano di maritarsi.

Ciò detto, come mai queste figure godono di un tale successo ai nostri giorni?
Secondo alcuni, le lettrici di romance sono di base molto conservatrici e ed aderenti a modelli tutto sommato patriarcali, per cui associano la potenza e l’attività sessuale all’essenza del vero uomo, così come la donna vergine e piuttosto sottomessa è l’essenza della vera donna. Le lettrici quindi, identificandosi con la protagonista illibata, nel conquistare l’eroe così maschio e concupito, ottengono una doppia vittoria: su tutte le altre donne, su cui si dimostrano superiori, e sugli uomini in generale, visto che loro così inesperte sono riuscite a far impazzire un esemplare di tal fatta. In realtà è una vittoria ben effimera, primo perché ciò non può attenuare il fatto che le donne in quella società non godano di alcun prevalenza e che debbano subire un ordine sociale, morale e giuridico assolutamente ingiusto, secondo perché questo finto trionfo della vergine, mostra assai chiaramente il sogno da parte di queste donne di avere un potere che nella vita reale non hanno affatto.

Per cui, che senso ha morire dietro tipi del genere? Personalmente mi attrae certamente un eroe passionale e sensuale, il che non fa rima con libertino, tra Derek Craven e Sir Ross (L'amante di lady Sophia) io non ho dubbi, preferisco un vero uomo (con tutto che Derek mi piace molto!).Certo l'optimum sarebbe un Jofrè de Peyrac (Angelica), ovvero un eore che racchiude entrambe queste figure maschili, ma ripeto, io mi "accontento" di un Sir Ross o di un Nick Gentry ( Amore ad ogni costo, il quale è lui ad essere vergine all'inizio del libro).

sabato 5 settembre 2009

RECENSIONE LA REGINA DELL'ETERNITA'( Nefertiti) di Michelle Moran


Prima edizione anno: 2007 by Random House, Crown Publishers

Edizione italiana: 2009, Newton Compton, collana Nuova Narrativa Compton, pp.423

Traduzione di: Stefania Di Natale

Categoria: Romanzo storico

Formato: hardcover/ brossura

Livello di sensualità: kisses (solo baci)

Ambientazione: Egitto, 1350 A.C. circa

Voto/rating: 5/10

Anche chi non conosce la storia dell'Antico Egitto ha sentito parlare del faraone Akhenaton, colui che pose il dio Aton al di sopra degli altri dei del pantheon egizio, e della sua consorte, la bellissima regina Nefertiti, la cui immagine, variamente riprodotta, è dovunque a vario titolo e difatti quasi tutti quindi hanno avuto la possibilità di ammirare, anche se non dal vivo, lo splendido busto conservato all'Altes Museum di Berlino.

Il libro della giovane Michelle Moran dovrebbe, almeno nominalmente, parlare appunto di Nefertiti ed attraverso di lei dell' avventura amarniana, in quello che viene presentato come un documentatissimo romanzo storico.



In realtà qui di storico c'è pochissimo, se non una discreta quanto superficiale cornice, tanto per dimostrare che l'autrice ha fatto i compiti a casa, ma oltre questo non si va.



Tanto per cominciare la protagonista non è la Grande Sposa Reale bensì sua sorella Mutnodjmet, che all'inzio della storia, benchè abbia solo tredici anni, parla e ci viene presentata come se ne avesse almeno trenta e fosse molto saggia. Peccato che al comtempo sia piuttosto sciocca, banale e dimostri di non capire molto del mondo che la circonda e tutto sommato non sia un personaggio così interessante da costruirci un romanzo intorno, visto che oltre ad essere la voce narrante, tutto viene visto attraverso i suoi occhi. Nefertiti quindi appare solo in un susseguirsi si scene selgate tra loro, che saltano anche diversi anni alla volta, come fosse una comparsa di lusso nella vita della sorella minore.



Le psicologie sono appena tratteggiate e ben poco credibili, soprattutto se rapportate all'epoca (abbiamo una regina madre che usa temini come slogan e leader!) e che rimandano più alle commedie scolastiche americane che non all'antico Egitto. A parte Mutnodjmet, che diventa Mutny sin dalle prime pagine (come se gli anichi egizi usassero i medesimi vezzeggiativi degli statunitensi) gli altri personaggi sono poco più che delle macchiette, a cominciare da Akhenaton che inspiegabilmente, viene dipinto come un ragazzino folle ed isterico che per vendicarsi della mancata adorazione popolare, si reca nella sua città orami invasa dalla peste con intenti bellicosi, facendosi contagiare e morendo poco dopo insieme e diverse sue figlie. Al di là del fatto che ciò è storicamente falso, anche da un punto di vista di coerenza narrativa non ha alcun senso e sconfina nel ridicolo. Ma il meglio, a mio avviso, la scrittrice lo raggiunge nella figura di Nefertiti: vanitosa, viziata, prepotente, egoista. La teen-ager cattiva per eccellenza, vista appunto in tantissime filmetti adolescenziali e che nulla ha a che vedere nè con la realtà ne con la verosimiglianza. Anche lei, come tutti gli altri personaggi, non ha una ragione per esistere nè il suo comportamento è giustificabile o veramente comprensibile. Sembra purtroppo, come tutto il romanzo del resto, una brutta copia dell'Anna Bolena de L'altra donna del re di Philippa Gregory, libro ed autrice di ben altro spessore e calibro.



Personalmente sono arrivata alla fine solo per forza di volontà, la sciatteria e la superficilità del tutto mi hanno davvero irritata e pur non negando una certa capacità narrativa alla Moran, sconsiglio questo titolo a tutti con l'eccezione di chi è totalmene digiuno di storia, non ha mai letto un romanzo storico e ama le letture totalmente non impegnative e di poco spessore.

venerdì 14 agosto 2009

LORDS E PROSTITUTE




I generi letterari si basano su degli stereotipi ed il Romance non fa eccezione. Sono in molti a sostenere che questo sia un sotto-genere, in cui tanto i personaggi quanto le ambientazioni manchino di spessore e di una qualsivoglia aderenza alla realtà. Prendiamo un clichè molto diffuso nel Romance ma anche nella Letteratura con la L maiuscola: il gentiluomo e la prostituta. Senza scomodare Dumas figlio o Giuseppe Verdi, sono molti gli esempi di storie basate su una tale coppia. Proprio l'anno scorso nella collana dei romanzi Mondadori è stato pubblicato il pregevole “Il cuore di una cortigiana” di Anna Campbell e per la serie oro “ Un romantico equivoco” di Betina Krahn. Lo spessore dei due libri è certamente diverso, la Campbell perlomeno si impegna nella costruzione di personaggi credibili, mentre la Krahn rimane sull'estrema leggerezza, al limite dell'inconsistenza, quello che li accomuna è una visione totalmente falsata dei rapporti fra i sessi e tra le categorie sociali, che evidentemente è però molto cara agli scrittori/ici ed anche ai lettori/ici. A quanto pare le lettrici non solo non protestano, ma a quanto pare si “bevono” una tal sequela di assurdità. Verrebbe da chiedersi come mai; in alcuni casi certamente una non conoscenza del periodo storico può servire da giustificazione, in altri il considerare il Romance come pura evasione.
Per chi volesse farsi un'idea di come andavano (ed in molti paesi ancora vanno) le cose, suggerisco la lettura di due titoli recenti e facilmente reperibili: Michel Faber
"Il petalo cremisi ed il bianco” (Einaudi) e Belinda Starling "La rilegatrice di libri proibiti” (Neri Pozza). Il primo è un capolavoro, anche se molti non sono riusciti ad apprezzarlo a causa della lunghezza, 985 pagine, ed ha per protagonista principale, tra i molti altri, Sugar, giovane e richiestissima prostituta che cerca, di districarsi in una esistenza terribile e senza futuro apparente. Sulla sua strada incontrerà William Rackham, giovane e ricco gentiluomo che ha bisogno di legittimarsi nella sua virilità attraverso un rapporto mercenario privilegiato e che non pensa minimamente a sconvolgere la propria vita per lei. Il suo matrimonio con la bellissima debuttante Agnes è uguale a quello di tanti altri del medesimo ceto e della medesima epoca: una noiosa ma rassicurante routine per lui, un' angosciante e ripetitivo inferno domestico per lei.
“La rilegatrice di libri proibiti” invece narra la difficile lotta per la sopravvivenza ed i compromessi morali necessari per farlo, (operare su testi ed immagini pornografiche, cedere ai ricatti degli usurai, lavorare con degli schiavi) della moglie di un rilegatore Dora, che si vede costretta a sostituirlo, quando questi diventa invalido, all'insaputa di tutti perchè all'epoca non era accettabile che una donna piccolo borghese lavorasse e per di più svolgesse una professione da uomo. Dora affronterà lotte impari e perderà ogni sicurezza psicologica e materiale prima della fine delle sue traversie. Entrambi i romanzi sono ambientati nella Londra vittoriana ad una decina di anni di distanza, lo stesso set di moltissimi romanzi rosa, ma qui si vede la miseria, si sente quasi la puzza di una città piena di poveri e mendicanti, dove la condizione della donna è comunque quella di un essere inferiore, senza diritti se indigente, con pochissimi se ricca, non degna di stima né di rispetto se non in quanto fattrice, costretta comunque a vendersi ad un marito o ad un amante, per il quale non è né più né meno che un oggetto od un pezzo di carne da usare a proprio piacimento. Non ci sono cavalieri immacolati e coraggiosi che si struggono per la cortigiana di turno, bensì maschi affamati che necessitano di sfogare la loro libidine e prostitute che di certo il cuore non l'hanno d'oro, bensì duro come un diamante per aver vissuto e sopportato anni di orrore.
Allora è forse vero che le lettrici di Romance non hanno senso critico o che preferiscono credere in un modo irrealistico dove gli uomini e le donne sono infinitamente più perfetti o semplicemente bidimensionali? Il successo che films come Pretty Woman continuano a riscuotere ad ogni passaggio televisivo sembrerebbe confermare una simile ipotesi, come se il ruolo della donna, nell'immaginario collettivo, si fosse cristallizzato in due sole posizioni: la santa e la peccatrice, a dispetto di una realtà in forte e continuo cambiamento o forse proprio per questo. Le eccezioni storiche ci sono sempre state ovviamente, basti pensare all'imperatore Giustiniano, che fece della ex mantenuta Teodora la sua imperatrice, ma erano appunto eccezioni, è curioso osservare come per qualche misterioso motivo, quella che è stata per gli ultimi 350 anni una costante, ovvero la relazione tra un ricco borghese od un aristocratico ed un'attrice più o meno di grido, questa si conclusasi più volte con un matrimonio, non venga praticamente mai affrontata dalle autrici di Romance. Radicata diffidenza verso una professione sempre considerata sospetta (in fondo come fidarsi di chi per mestiere finge di essere qualcun altro), scarsa voglia o timore di cimentarsi con temi differenti da parte di editori e scrittrici? La Storia è ricca di vicende affascinanti di donne molto più interessanti di Margherita Gauthier/ Violetta Valery, è forse giusto cominciare a scoprirle e farne spunto per splendide storie d'amore.....


martedì 11 agosto 2009

RECENSIONE IO E MARLEY (Marley and Me) 2008







Regia di David Frankel con Owen Wilson (John Grogan), Jennifer Aniston (Jennifer Grogan), Alan Arkin (Arnie Klein), Kathleen Turner (Ms. Kornblut)


John e Jennifer Grogan sono una giovane coppia di sposi piena di entusiasmo ma ancor più di incertezze: sul loro futuro in generale e su quello professionale in particolare, su dove stabilirsi e su quale direzione far prendere al loro rapporto. Se Jennifer ha le idee piuttosto chiare, ovvero vuole una famiglia, John non si sente ancora del tutto adulto né pronto a diventar padre, così accetta immediatamente il suggerimento di un collega, ovvero prendere un cane che tenga occupata Jennifer e le permetta allo stesso tempo di sfogare il suo istinto materno, concedendogli intanto la possibilità di procrastinare una decisione e di abituarsi eventualmente all’idea di una prossima paternità. La scelta cade su uno splendido cucciolo di Labrador Retriver, ribattezzato Marley, che si rivelerà un incrocio tra un terremoto ed un ciclone e che sconvolgerà la loro vita, dapprima nel tentativo di tenerlo a bada ed in seguito come membro fondamentale e cemento della nascente famiglia Grogan. Gli anni passeranno, molti cambiamenti ci saranno ma Marley sarà sempre lì, guardiano, custode, compagno, testimone, amico.

Tre anni fa il libro autobiografico del giornalista John Grogan ottenne un inaspettato e planetario successo, naturale quindi che Hollywood decidesse di farne un film che bissasse quel successo. L’impresa, almeno dal punto di vista economico, sembra riuscita: il film ha incassato moltissimo in America e nei paesi dove è uscito finora, anche se non tutti sembra abbiano capito il meccanismo per cui ciò sia successo. In effetti la pellicola non è certamente un capolavoro e la regia di David Frankel è quella che si definisce una direzione “corretta” ma senza particolari guizzi, al limite del piatto, specialmente quando dopo una prima parte più ritmata e divertente (in cui Marley ne combina mille ed una), la storia rallenta per seguire la vita quotidiana della famiglia Grogan divenendo la cronaca un poco banale di fatti usuali e comuni ai più. Però è proprio in questa mancanza di eccezionalità che sta paradossalmente la forza del film, non le vicende funamboliche od avventurose di personaggi fittizi, ma l’esistenza genuina e scontata di un normale nucleo familiare alle prese con problemi scontati e normali, ma in cui tutti possono riconoscersi, narrati con delicatezza, senza mai alzare i toni o ricorrere ad effettacci di dubbio gusto. Perché ciò che è davvero straordinario, nel suo essere ordinario, è la forza del sentimento che unisce la coppia da sola prima ed in seguito la coppia che cresce e matura aprendosi alla genitorialità, grazie anche a Marley e che impara la forza dell’amore nelle sue varie declinazioni, inclusa quella importantissima tra uomo ed animale, tra padrone e cane.

Certo la sceneggiatura spesso sembra non sapere esattamente che direzione prendere, se quella del film comico, della commedia di costume, del film per famiglie, del dramma contemporaneo e cerca di mischiare un poco di tutto ma senza eccessiva perizia, salvato dalla evidente chimica tra la Aniston e Wilson che rendono concreta e credibile la trama, nonché da un regista che si mette al loro servizio. Jennifer Aniston è gradevole e solida come co-protagonista, ma Owen Wilson è decisamente bravo, in un ruolo dove non può ricorrere ai suoi soliti e facili eccessi comici bensì è costretto, fortunatamente per noi, ad usare una gamma interpretativa decisamente più modulata da commedia che vira al drammatico nel finale. Comprimari di lusso e bravissimi Alan Arkin nel ruolo del capo di Grogan e Kathleen Turner in quello dell’istruttrice cinofila Ms. Kornblut, un delizioso cameo, ed ultimo, anzi ultimi, i cani che impersonano Marley nelle varie età, deliziosi, divertenti, bravissimi, tutt’altro che attori-cani, anzi spesso sono decisamente i migliori in scena!
Un film carino, che intrattiene nonostante qualche lentezza e che si riscatta totalmente in un finale tragico ma molto intenso, che sfida diversi tabù e ci regala alcune scene di puro dolore, che niente hanno a che fare con certe pellicole completamente artefatte per la famiglia.
Chi ha un cane (un Labrador in particolare) o l’ha avuto riderà e piangerà alternativamente, ricordando e rivivendo esperienze note, ma anche chi non ha mai provato quell’amore puro, assoluto, pulito e totale che nasce tra un cane e l’uomo e che non è facile da esprimere o da far comprendere a chi questa conoscenza non l’ha, rimarrà toccato e forse valuterà con occhi diversi le notizie in genere drammatiche, in cui si parla di cani, quasi sempre in chiave negativa. Perché questi numerosissimi compagni ci sono silenziosamente accanto ogni giorno ed in tanti momenti e campi importanti, chiedendo poco e dando moltissimo: sono con gli anziani soli, coi bambini autistici, coi malati terminali, coi ciechi, i sordomuti, coi malati di alcuni tipi di disturbi mentali, coi paraplegici, con la guardia costiera, coi pompieri, con la polizia, con la protezione civile o semplicemente arricchendo inestimabilmente la vita di chi ha la fortuna di accoglierli.
Lavorano per noi, con noi, pronti a dar la vita per un sorriso ed una carezza. John Grogan ha reso un giusto e doveroso omaggio ad una creatura splendida col suo libro, ed anche il film nel suo piccolo, riesce in parte a riprodurre il nocciolo di questo evento speciale, credo che anche noi dovremmo dire una sola parola: grazie.

RECENSIONE SEMPLICEMENTE PERFETTO (Simply Perfect) di Mary Balogh

Prima edizione: 2008 by Dell


Edito in Italia da: Mondadori, I Romanzi Emozioni no.7, agosto 2009


Ambientazione: regency


Grado di sensualità: warm (caldo)


Voto/rating: 9/10


Collegamenti ad altri libri: ultimo romanzo del “Quartetto Simply” (Simply Quartet), ovvero della serie dedicata alle insegnanti della Scuola per Signorine di Miss Martin a Bath. La serie è così composta:
1. RISVEGLIO DI PASSIONI (Simply Unforgettable) – protagonisti Frances Allard e Lucius Marshall, visconte Sinclair

2. SEMPLICEMENTE AMORE (Simply Love) - protagonisti Anne Jewell e Sydnam Butler

3. SEMPLICEMENTE MAGICO (Simply Magic) - protagonisti Susanna Osbourne e Peter Edgeworth, Visconte di Whitleaf

4. SEMPLICEMENTE PERFETTO (Simply Perfect) - protagonisti Claudia Martin e Joseph Fawcitt, marchese di Attingsborough

Joseph Fawcitt, marchese di Attinsborough: bello, nobile, elegante, affascinante, gentile, generoso, seducente, scapolo, futuro duca.
Claudia Martin preside ed insegnante: aspetto mediocre, dura, severa, seria, responsabile, generosa, gentile, coraggiosa, orgogliosa caparbia, zitella trentacinquenne che odia gli aristocratici.
Nulla può esserci di più distante di questi due personaggi.
Lei è una donna abituata alle avversità, che con forza e tenacia si è costruita una carriera ed una vita, fieramente indipendenti e le ha dedicate ad aiutare altre ragazze in difficoltà come lo era stata lei un tempo. Claudia non si concede debolezze e pensa che il matrimonio sia un pessimo destino per buona parte del genere femminile
Lui è uno splendido aristocratico, un perfetto gentiluomo, nato con tutti i privilegi, apparentemente a suo agio nella sua condizione, che ha trascorso una tranquilla esistenza a fare ciò che tutti si aspettavano da lui, né di più né di meno. O quasi. Perché Joseph custodisce un segreto dolce-amaro, un segreto per cui la prospettiva dell’imminente matrimonio, combinato per lui da suo padre, diviene fonte di preoccupazione oltre che non particolarmente appetibile. Ma non si sottrarrà a quelli che considera essere i suoi doveri principali, ovvero sposarsi e generare almeno un erede legittimo. Farà ciò che è giusto, come sempre del resto.
Anche Claudia ha fatto del dovere quasi una religione, ne è sacerdotessa e cultrice al tempo stesso, lo impone agli altri ed a sé stessa per prima, con ben poche deroghe, conducendo ogni giorno una vita accuratamente programmata, piuttosto monotona e molto prevedibile.
Un banale viaggio lì farà incontrare, scontrare, separare ed infine avvicinare quando Joseph si confesserà con Claudia per chiedere il suo aiuto per una questione talmente importante da sconvolgere i loro destini, benché entrambi si oppongano con violenza ad ogni cambiamento dello statu quo. Per paura, per abitudine, per timore di sfidare le convenzioni, per comodità, per aver perso la capacità di sognare. Perché a volte la rassegnazione è ben più facile, così come autopunirsi diviene una consuetudine rassicurante. Ma a volte i germogli più belli riescono a sbocciare in un territorio ostile, così come l’amore arriva dove non lo si cerca e quando non lo si aspetta, se solo si ha il coraggio di guardarlo a viso aperto e di accettarlo. E Claudia e Joseph non si sottrarranno alla sfida.

Che due personaggi simili potessero innamorarsi era per me un’ipotesi inverosimile ma Mary Balogh non solo è riuscita in un compito difficilissimo ed improbabile, ma lo ha fatto regalandoci un libro meraviglioso, commovente, vibrante e toccante. Un romanzo dove si sente letteralmente il silenzio, un silenzio pregno di significati, dove gli sguardi ci parlano, dove la bellezza ci circonda, dove ogni rivolgimento dell’animo dei personaggi ci attraversa il corpo come fossimo loro, dove è impossibile staccarsi dalla trama e dai suoi protagonisti. Un trama semplice, come nello stile dell’autrice, in cui gli accadimenti sono soprattutto interiori e proprio per questo ben più d’effetto che mille colpi di scena. Una storia che va dritta al cuore ed al centro dell’anima, con brani di straordinaria profondità e saggezza, tra i più belli e veri che la Balogh abbia mai scritto e che rientrano a pieno titolo nella letteratura di serie A.


Claudia e Joseph ci appaiono come persone reali, soffriamo con loro, gioiamo con loro, li accompagniamo nella scoperta di loro stessi, dei loro più intimi e inconfessati segreti, del loro desiderio di felicità e della loro sopita ma intensa passione che aspetta sono il giusto detonatore per poter esplodere. Claudia per necessità ed a causa di un grande dolore, ha rinunciato ad essere una donna, per annullarsi nel suo ruolo di insegnante, illudendosi di essere appagata per poter sopravvivere. Joseph non si è mai ribellato alle regole scritte e non del proprio ceto sociale, rinunciando alle emozioni profonde ma anche ad una esistenza degna di questo nome, avviandosi ad appassire come una pianta mal curata. Entrambi, in realtà, desiderano una carezza, un bacio, un po’ di calore, che li faccia sentire desiderati, amati, che li faccia sentire veramente e pienamente vivi. Nella mente, nello spirito e nel corpo. Che li ammanti di luce, che li avvolga come un bozzolo protettivo, che li infiammi. Spesso ciò che bramiamo più famelicamente, è in realtà ciò che ci spaventa di più, e la nostra coppia proprio questo si troverà ad affrontare e sconfiggere: le loro paure, per aver il diritto di volare ed afferrare la contentezza, la soddisfazione, la realizzazione.
Mary Balogh, come da par suo, crea scenari di rara magia, di estrema atmosfera e di totale verità, non vi sono scene sconvolgenti o particolarmente erotiche, eppure leggere di Claudia e Joseph, seduti l’uno a fianco dell’altra, silenti eppure vicinissimi interiormente, è leggere una delle più belle, ben riuscite e penetranti scene d’amore mai scritte in un romance. Questo è l’amore, quello dei piccoli ma importantissimi gesti comuni, quotidiani, ma ricolmi di significati quando compiuti da chi ci ama e che amiamo, un amore non impossibile, pieno di imperfezioni, non facile, ma per cui impegnarci, lottare e patire se necessario.

Un romanzo da consigliare anche a chi non ama questa autrice, che oltre ad intrattenere nutre lo spirito e ci riconcilia con noi stessi.


domenica 26 luglio 2009

RECENSIONE IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON (The curious case of Benjamin Button) 2008


Regia di David Fincher con Brad Pitt (Benjamin Button) Cate Blanchett (Daisy Fueller) Julia Ormond (Caroline) Taraji P. Henson (Queenie)

New Orleans, 1918, la città è in festa per la fine della Grande Guerra. Monsieur Gateau talentuoso costruttore di orologi cieco, ha perso in battaglia il suo unico figlio. Non ha pianto lacrime che fossero visibili ma il suo dolore è grande. Prima di scomparire per sempre, decide di terminare quella che è la sua commissione più importante, un enorme cronografo per la stazione centrale, a modo suo. Le sue lancette infatti segneranno si il tempo, ma all’indietro, perché forse così, afferma, coloro che abbiamo perso potranno tornare da noi.

Thomas Button si affretta verso casa, sua moglie sta partorendo il loro primogenito è lui è pieno di entusiasmo. Ma ad accoglierlo troverà una casa silenziosa, un letto zuppo di sangue, una moglie alle soglie del trapasso. Il bambino è nato, è vivo, ma è mostruoso. Non può essere suo figlio. Non può. E’ uno scherzo della natura, una vergogna da coprire, un problema da eliminare. Thomas non ci pensa su nemmeno un attimo, non terrà quell’essere deforme. Vorrebbe annegarlo nel fiume, ma la presenza di un poliziotto glielo impedisce, così lo abbandonerà davanti ad una casa di riposo per anziani, dove lo troverà la capo inserviente di colore Queenie, che nonostante non sia sposata, non guadagni granché ed abiti nel sottoscala dell’edificio, avrà il cuore abbastanza grande per accogliere, salvare ed amare quel neonato repellente, rugoso ad artritico come un novantenne.

Inizia così uno dei film più belli dell’anno, stabilendo da subito il tono del racconto, che non vuol essere se non in minima parte agganciato alla realtà, ma per il resto si situa nel favolistico, in una terra di mezzo tra Forrest Gump ed Il favoloso mondo di Amélié. Come per i film fantastici, anche qui è necessaria una sospensione del giudizio per potersi godere appieno la storia e lasciarsi trasportare da essa. Non cercate verosimiglianza od assenza di incongruenze, che pure ci sono e numerose, non è una commedia, un documentario od una pellicola di denuncia, ma cinema allo stato puro: ovvero sogno ed emozione. Lasciate i pregiudizi a casa (non mi piace Brad Pitt, è troppo lungo, è ambientato nel passato, è un’americanata) ed abbandonatevi alla magia. L’incanto di una regia forte ed avvolgente, di una fotografia meravigliosa e sapiente che cambia con il variare dei periodi storici, passando dal bianco e nero, al seppia, al technicolor, alla saturazione tendente all’ocra degli anni sessanta e del superotto, a quella a luce quasi naturale degli anni settanta, alla mancanza di contrasto degli anni ottanta, per approdare alla luce fredda e virata al grigio dei giorni nostri, in un virtuosismo che coinvolge tutti gli altri reparti. Musica, scenografia, costumi, suono, trucco ed effetti speciali sono di un livello altissimo come lo sono tutti gli interpreti, dai comprimari ai protagonisti, con menzione particolare per la strepitosa Taraji P. Henson nei panni di Queenie e per la radiosa ed intensa Cate Balchett nei panni di Daisy, l’amore della vita di Benjamin. Come gli ingranaggi dell’orologio di Monsieur Gateau, anche qui tutto concorre al risultato finale, che se in alcune singole parti può mostrare pecche, (come la sceneggiatura che ricorda troppo il succitato Forrest Gump discostandosi moltissimo dall’omonimo racconto di Francis Scott Fitzgerald da cui è tratta) nell’insieme si armonizza e ci consegna un’opera lirica, struggente ed affascinante.
E’ difficile non partecipare alla vita di questo bambino, alla sua scoperta della vita partendo dall’assenza di speranze per approdare alla meraviglia della conquista giornaliera di ciò che gli altri danno per scontato, come poter camminare con le proprie gambe, essere autosufficienti, uscire di casa, riuscire lavorare, scoprire l’amore, quello fisico e quello spirituale, sapendo al contrario di tutti gli altri, quale sarà la propria fine. E mantenere l’animo puro ed aperto, alle persone come all’esistenza, per quanti colpi duri essa possa infliggerci.

Certamente la prima metà del film, incentrata su Benjamin, è la più riuscita, si rimane avvinti dalle immagini in maniera quasi ipnotica e ci si sente catturarti nel profondo senza comprenderne totalmente il motivo. Poi la trama si sposta sulla storia sentimentale tra i protagonisti, cambiando leggermente registro. Benjamin e Daisy si innamoreranno da bambini e riusciranno, dopo molte traversie ed esperienze, a vivere appieno questo sentimento solo ormai adulti e per un breve momento. Ma non è questo il miglior ritratto dell’amore che il film ci regala. Pitt e Blanchett sono bellissimi, levigati, perfettamente accoppiati ed adeguatamente appassionati nei loro incontri della maturità, poi per loro il tempo inizierà a scorrere diacronicamente. Solo allora, quando entrambi saranno vecchi, anche se in maniera fisicamente opposta, assisteremo ad alcune tra le più commoventi e vivide rappresentazioni dell’amore che mi sia mai capitato di vedere sul grande schermo, varrebbero da sole tutto il film.
David Fincher, innovatore, disturbatore, amante dei toni cupi e dei disadattati, sorprendentemente dirige una pellicola in maniera classica eppure personale, raggiungendo una maturità che promette futuri capolavori e che diversamente dalle sue precedenti opere non propone soluzioni ma pone quesiti.
Quesiti probabilmente sgradevoli in un mondo dominato da una parte da dogmi ed ideologie (anche in campo cinematografico) dall’altro da un individualismo sfrenato e da un culto di una irraggiungibile perfezione fisica sotto cui si cela il niente ed il terrore della morte. La bruttezza o una qualsiasi deformità o difformità rendono un essere umano indegno ed immeritevole di essere accolto nella società e di essere amato? Perché la società non vuole farsene carico come non vuole farsi carico degli anziani, trasformando di fatto tutte queste persone in invisibili ed indesiderabili? Davvero i legami di sangue sono quelli più forti o l'esser genitori non ha nulla a che fare con la semplice biologia e tutto con il desiderio di accoglienza? Perché non sono accettabili gli inevitabili segni dell’invecchiamento? Perché non si può mostrare che l’amore è anche rinuncia al proprio egocentrismo e parzialmente rinuncia all’io, per passare al noi? Cosa o chi dà significato al nostro vivere?
A ciascuno di noi trovare, se c’interessa, la risposta a queste domande, proposte più con la potenza delle immagini che con quella delle parole, che onestamente qui sono di importanza alquanto relativa. E come le immagini, restano dentro di noi, a lungo. Impossibile uscire dalla visione di questo film senza aver provato nulla, non importa a quali mezzi gli autori siano ricorsi, fatto sta che hanno colpito il nostro cuore e toccato il nostro spirito. A me sembra un risultato enorme.

RECENSIONE SOGNANDO TE( Dreaming of you) di Lisa Kleypas


Prima edizione: 2004 by Avon Books

Edito in Italia da: Mondadori, collana Oscar Bestseller, aprile 2008, seconda edizione collana Emozioni febbraio 2009

Ambientazione: 1820 circa

Grado di sensualità: hot/bollente

Voto/rating : 9/10

Collegamenti con altri romanzi : è il secondo romanzo della serie detta dei "Giocatori" (Gamblers), dopo "Then Came you", inedito in Italia.


Sara Fielding ha un aspetto banale, si veste in maniera banale e conduce una vita apparentemente banale in un anonimo paesetto della campagna inglese. Ma in quel piccolo cottage, al riparo nella sua stanza, Sara ribolle delle storie che vorrebbe raccontare a quel mondo che tutto sommato conosce ben poco, se non attraverso la fantasia. Una fantasia galoppante ed una passione irrefrenabile che l'hanno condotta ad intraprendere la carriera di scrittrice, nonostante la disapprovazione iniziale della famiglia. Ma le storie dentro di lei non possono attendere, vogliono essere narrate e non accettano ostacoli sul loro cammino: né la paura dell'ignoto né la miriade di difficoltà che dovrebbe affrontare una ragazza ingenua ed inesperta che decidesse di confrontarsi col vizio. E quale miglior antro di vizi di Londra, o meglio una casa da gioco, quindi di malaffare, a Londra? Con sprezzo del pericolo e molta incoscienza, nonché assoluta ignoranza, la giovane parte alla volta della capitale e si introduce più o meno illecitamente in quella che ne è la più famosa casa da gioco, incontrandone il proprietario, colui che controlla ogni tipo di traffico losco della città: Derek Craven. Lo splendido, seducente, affascinante spietato Derek. A quel punto per Sara tutto passa in secondo piano: le ricerche per il nuovo romanzo, il desiderio di indipendenza e quello di conoscere la vita di città in tutti i suoi aspetti, anche quelli più sordidi. Sono solo scuse per rimanere accanto ad un uomo da cui è rimasta letteralmente folgorata e che è rimasto a sua volta folgorato da lei, ma che per quanto delinquente non lo è abbastanza per approfittare di un' innocente. Derek la scoraggia in ogni maniera, la spaventa, la provoca cerca di disgustarla e nel frattempo soffre come un cane, si infuria, si macera, si abbruttisce con l'alcool. Eppure Sara non cede e per conquistarlo si trasformerà in un'altra donna, una donna sensuale ed intrepida, una donna da sogno, quella dei sogni di Derek. Chi non ha mai letto un libro di Lisa Kleypas non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di conoscerla cominciando da questo, chi già la apprezza, ma ha mancato la precedente pubblicazione di questo romanzo, dovrebbe rimediare, chi non se l’è lasciato sfuggire un anno fa, dovrebbe rileggerselo. Perché qui ci sono tutti gli elementi che fanno della Kleypas una grande scrittrice: la capacità di catturare immediatamente l’attenzione del lettore e di mantenerla viva sino alla fine, l’alchimia sempre forte e realistica che riesce a creare tra i due protagonisti in poche righe e che ci fa arrivare intensa ed intera, l’ottima caratterizzazione di tutti i personaggi, dai principali ai minori, le sue descrizioni assolutamente cinematografiche, per cui a volte si ha la netta impressione di star guardando un film, la partecipazione emotiva che riesce sempre ad ottenere anche dal lettore più riottoso, la naturalezza dell’eccitazione che le sue scene d’amore non mancano mai di suscitare. La Kleypas usa consapevolmente degli stereotipi e delle storie già sfruttate, a cui però infonde nuova vita ed una nuova credibile direzione. Sara è allo stesso tempo il prototipo della giovane vergine, inconsapevole della sue attrattive e della sua femminilità ma anche il simbolo della purezza, , così come Derek è si il prototipo della canaglia, del maschio prepotente, dominatore e disonesto e proprio per questo desiderabile, ma anche il simbolo della depravazione. Il vizio e la virtù si attraggono incessantemente ed inevitabilmente; Derek vede in Sara quella pulizia morale, quel cuore incontaminato, quell’animo cristallino che lui non ha mai nemmeno potuto sognare di avere, perché non è che un rifiuto della società, un orfano senza nome e senza età, che ha fatto letteralmente di tutto per sopravvivere. La sua disperazione e la sua volontà di fuggire da quella innominabile miseria, sono state così profonde e totali che non si è fermato di fronte a nulla. Ma ora, a paragone di Sara, si sente vecchio, vecchio e sporco e vorrebbe recuperare quella parte innocente sepolta da sempre. Sara invece, vede di Derek non solo la parte positiva, coraggiosa e per lei eroica, ma anche tutta una messe di esperienze che le sono state e sempre le saranno precluse, nella sua esistenza modesta ma protetta, l’audacia di seguire i propri desideri senza troppi scrupoli, l’appagamento della soddisfazione dei propri appetiti, qualunque essi siano. Attraverso di lui, le sembra di poter assaggiare tutto un universo proibito che la spaventa e nel contempo la attrae, nonché di poter recitare anch’ella una parte eroica salvandolo da sé stesso e di crescere per diventare da ragazzina immatura a donna. Derek e Sara sono il perfetto contraltare l’uno dell’altra e poco importa che nella realtà una coppia del genere sarebbe disastrosa, nella finzione funzionano meravigliosamente. Perché anche chi, come me, non ama affatto i cattivi ragazzi, non potrà che essere sedotta da Derek Craven, dalla sua sofferenza, dalla sua solidità, dalla sua forza, dalla sua sensualità. Lisa Kleypas sa bene che le donne amano vestire i panni delle crocerossine, che adorano il sacrificio e che sono disposte a patire molto per un uomo che le incanta e le fa sentire delle regine, soprattutto in certi momenti. Come Sara istintivamente percepisce che Derek può far sbocciare la sua femminilità anche noi capiamo che Derek è il tipo di cavaliere in scintillante armatura che in fondo vorremmo: prima ci salva dal drago, poi ci regala il mondo ed infine ci porta in paradiso coi suoi baci (ed il resto…). Resistere si può? Io non credo ed anche se si potesse perché farlo? Divertiamoci, commuoviamoci, sospiriamo ed alla fine soccombiamo a Derek ed alla maestria della Kleypas, con un unico avvertimento: dà dipendenza!


sabato 25 luglio 2009

RECENSIONE PROMESSE (Uncommon Vows) di Mary Jo Putney




Prima pubblicazione anno: 1991 by Onyx


Pubblicato in Italia da: Mondadori, I Romanzi Big no.839, dicembre 2008


Livello di sensualità: Warm (caldo)


Ambientazione: Medievale


Voto: 7-/10

Può uno sguardo penetrare nel cuore? Può uno sguardo rapire l’anima? Adrian de Lancey se lo domanda dopo aver incontrato quello della giovane novizia Meriel de Vere e preferisce non aver risposta. Lui è un cavaliere che passa da una battaglia all’altra e lei una fanciulla votata a Dio. Meglio dimenticare. Trascorrono sei anni e di nuovo il destino fa incrociare i loro cammini, Meriel alla fine non ha preso i voti e si trova accidentalmente nei possedimenti di Adrian, dove viene scambiata per una cacciatrice di frodo. Meriel, temendo rappresaglie, preferisce non dichiarare la propria identità di nobile Normanna ed essere scambiata per una serva, visto che suo fratello appoggia la fazione avversa ad Adrian,ora conte di Shropshire. Ma Adrian, benché non la riconosca immediatamente, è di nuovo in balia del suo sguardo e non riesce a liberarsi di quello che gli appare come un sortilegio. Comincia così la storia di un desiderio intenso e contrastato che si trasformerà in ossessione, quando la ragazza rifiuterà tutte le sue avances e dichiarerà di preferire la morte alla sottomissione della sua volontà. Sarà un lotta feroce ed estenuante quasi come sul campo di battaglia per Adrian, che porrà in secondo piano i suoi doveri e la guerra civile che sta infuriando in Inghilterra, per gli occhi di Meriel , quegli occhi che rifiutano di ricambiarlo ma da cui lui non riesce a distaccarsi.

Il Medioevo inglese è spesso usato come ambientazione di romances storici, ma con risultati alquanto scarsi, visto che abbondano gli anacronismi e l’incapacità a ritrarre verosimilmente ambienti, situazioni e personaggi. La Putney invece ci presenta uno splendido affresco dell’anno mille, facendoci credere di stare effettivamente vivendo in quel periodo e non di stare guardando dei contemporanei travestiti da antichi. Il suo è quasi un romanzo intimista, perché benché non manchino i riferimenti esteriori, il racconto si concentra sui conflitti interiori dei due protagonisti, sui loro desideri confessati e su quelli inconfessabili, sul primato o meno del dovere sulla volontà individuale, sugli scrupoli della coscienza. Ecco, la coscienza: è la terza protagonista di questo libro, una protagonista forse ingombrate per il sentire contemporaneo, che si fa beffe di essa come di qualsivoglia scrupolo, relegandolo all’archeologia. Adrian e Meriel invece debbono rispondere alla loro coscienza, formatasi su una severa educazione religiosa, come era naturale e consueto all’epoca, ma che per loro è anche più forte in quanto entrambi sono stati vicinissimi a prendere i voti.
Adrian vorrebbe essere più forte dei suoi appetiti per il sangue e per la carne, ma come non può liberarsi del tutto dal piacere della battaglia, così non riesce a rifiutare il piacere del corpo della donna. Meriel invece teme profondamente di poter anche solo immaginare di abbandonarsi a quelli che per lei non sono che impulsi del demonio per allontanarla dal Cristo. Ma la paura non può fermare il fluire della passione: entra nei pori della pelle, scorre nel sangue, si respira con l’aria nei polmoni, batte con le pulsazioni del nostro cuore. Arrendervisi non sarà facile per nessuno dei due.
Il sentimento Cristiano di entrambi è vivissimo e profondo, l’amore per Gesù è così vero che è assolutamente toccante; è da molto tempo che non leggevo in un romanzo una tale sincera e forte atmosfera religiosa e mai mi era capitato in un romance, dove purtroppo, a discapito di qualunque realtà storica oggettiva, l’elemento della Fede non compare quasi mai e tutti sembrano allegramente o pigramente agnostici. Invece il Cristianesimo e la vita religiosa in generale, sono stati per millenni il centro della vita sociale e privata del mondo, solo negli ultimi trent’anni si è passati nel mondo occidentale, ad una secolarizzazione diffusa, quindi tanto di cappello alla Putney per aver saputo ricreare un tal universo, con perizia ed onestà. Non è necessario essere credenti per apprezzare un racconto del genere, anzi. La scena in cui Adrian risolve la propria lotta interiore e può finalmente pregare col cuore leggero, è una delle più intense che abbia letto, sentire quasi, come lui, la Grazia attraversarci sarebbe un bel regalo. Inoltre, il senso del peccato è la base della contrapposizione, quindi del cardine di ogni tipo di letteratura e qui è espresso molto chiaramente, divenendo un punto di forza del romanzo.
Altro punto forte è il meraviglioso protagonista Adrian: freddo e bollente, saggio ed imprudente, sicuro ma tormentato, umile ma anche volitivo, ci si innamora di lui quasi istantaneamente e si vorrebbe non lasciarlo, nonché vederlo accoppiato ad un’eroina di pari livello. Purtroppo invece Meriel risulta semplicemente essere una ragazzina, testarda, limitata ed oltremodo incapace di ammettere di essere in torto. Non comprendiamo perché Adrian debba essere così follemente innamorato di lei, visto che non porta alcun segno di eccezionalità. Peggio ancora, l’espediente utilizzato dall’autrice per giustificare il cambiamento della donzella, non solo risulta troppo macchinoso e poco credibile, ma non fa che aumentare la limpida percezione del divario tra i due. Un eroe di tale levatura è destinato ad essere perdente quando la sua amata è troppo mediocre, così come tutta la storia sfortunatamente si sfalda dopo una prima parte talmente ben riuscita e palpitante che non si riesce ad interrompere la lettura. Un inizio folgorante che non mantiene le promesse del titolo, un romanzo dalla doppia personalità come la sua protagonista: eccellente e passabile. Peccato, un’occasione sprecata, fermo restando che la Putney scrive come suo solito, con grande stile, eleganza e padronanza dei vari elementi della narrazione, ma quello che poteva essere un nove diviene un sette non pieno.